
La formazione sanitaria e l’educazione alle buone pratiche di prevenzione sono tematiche che il CEFPAS ha in comune con l’Organizzazione Medici con l’Africa CUAMM.
Medici con l’Africa Cuamm è la prima Ong in campo sanitario riconosciuta in Italia e la più grande organizzazione italiana per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane. Dal 1950 oltre 2.000 operatori, tra medici, paramedici e tecnici hanno prestato servizio con Medici con l’Africa Cuamm e hanno dato il loro personale contributo, professionale e umano, in una qualche parte del mondo povero. Sono otto i paesi dell’Africa sub-Sahariana in cui l’Organizzazione opera per il diritto alla salute dei più poveri: Angola, Etiopia, Mozambico, Tanzania, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan e Uganda. Un contributo fondamentale a questa Ong lo ha dato la dott.ssa Francesca Tognon, medico specializzato in Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Verona che ci vuole raccontare qualcosa in più dei Medici con l’Africa Cuamm.
- Chi è Medici con l’Africa Cuamm e qual è la vostra mission?
Medici con l’Africa Cuamm è una ong italiana con sede a Padova che, da più 70 anni, ha come obiettivo l’aiuto della popolazione più vulnerabile che risiede nell’Africa sub sahariana. In particolare, lavoriamo con il governo e la popolazione locale per implementare e migliorare il sistema sanitario che purtroppo non è in grado di assicurare cure e assistenza sanitaria base per tutti, in special modo per quella parte della popolazione definita la più fragile, composta da donne, bambini e anziani.
La nostra è una progettazione di cooperazione sanitaria a lungo termine, accompagnata anche da attività di formazione delle risorse umane, dalla ricerca e divulgazione scientifica sul campo.
Le nostre principali aree di intervento sono: la salute materna e infantile, la nutrizione (in particolare nei primi mille giorni di vita del bambino), le malattie infettive (come il trattamento di pazienti affetti da tubercolosi, malaria e HIV) e le malattie croniche (come il trattamento di diabete, ipertensione, tumori della cervice).
- Medici con l’Africa Cuamm: è molto interessante la dicitura “con” e non “per” l’Africa. Ci puoi spiegare il significato che sta dietro a questo “con” l’Africa?
Il nostro è un lavoro che viene fatto insieme alle popolazioni presenti nel luogo in cui andiamo ad intervenire, coinvolgendo le risorse umane locali su diversi fronti (dai medici agli infermieri e ostetriche, dai logisti agli attivisti nei villaggi).
Il “con” l’Africa sottolinea proprio questo: la concezione di aiuto e di condivisione del lavoro in un’ottica di sviluppo sul lungo periodo. Per noi questo concetto è davvero fondamentale e contraddistingue il nostro lavoro di assistenza che si basa essenzialmente su tre livelli: gli ospedali, i centri di salute periferici (quelli che possiamo tradurre come “ambulatori”) e i villaggi. Senza l’aiuto della popolazione locale sarebbe molto più difficile raggiungere e coinvolgere i distretti più lontani, quelli che noi chiamiamo l’ultimo miglio.
- Cosa significa nel quotidiano lavorare in paesi a risorse limitate? Quali sono gli aspetti più critici che un professionista sanitario deve affrontare?
È sicuramente una sfida quella che si pone davanti ad un professionista abituato a lavorare con le risorse che abbiamo a disposizione in Italia, chiamato a fare lo stesso lavoro in contesti in cui le tecnologie e le informazioni che vengono considerate “fondamentali” non esistono. Uno dei primi ostacoli è proprio quello di non avere gli strumenti adeguati per svolgere il lavoro che ci è stato richiesto. Poi, ci si trova a lavorare in un contesto completamente diverso, non solo dal punto di vista organizzativo, ma culturale. Si è immersi in un ambiente con un diverso approccio alla cura del paziente, alla malattia e alla morte. La nostra capacità decisionale e di azione è limitata e si deve imparare ad accettare di modificare le nostre priorità. Ci vuole tempo e dedizione per riuscire a trasformare queste difficoltà in opportunità di crescita.
- Partire per un periodo di cooperazione significa essere pronti ad affrontare nuove sfide. Come ci si prepara? Quanto conta la formazione per affrontare queste sfide?
Lavorare in un contesto differente da quello a cui si è abituati, per di più in un Paese a risorse limitate è una sfida quotidiana tutt’altro che semplice. Per questo a coloro che partono con la nostra ong viene richiesto un periodo di formazione e preparazione, che possa aiutare la persona a conoscere gli aspetti dell’Africa e a familiarizzare con le principali criticità, come ad esempio l’impossibilità di effettuare diagnosi con gli stessi strumenti che siamo abituati ad usare nei nostri ospedali o a fare un lavoro di “programmazione” che normalmente non ci viene richiesto. La figura del medico cooperante deve poter avere una conoscenza di base del contesto in cui si trova a lavorare e delle fonti che può avere a disposizione per conoscerlo al meglio. Per questo proponiamo in modo ricorrente percorsi formativi pre-partenza che aiutano ad aumentare le proprie conoscenze e competenze nell’ambito della cooperazione sanitaria internazionale.
- Qual è il percorso che fa un professionista sanitario prima di partire per l’Africa?
Lavorare in prima linea per il rafforzamento dei sistemi sanitari africani è un obiettivo complesso e richiede forte motivazione, ma anche una solida preparazione professionale, indispensabile per inserirsi nei progetti e collaborare in modo efficace con il personale locale. Medici con l’Africa CUAMM offre l’opportunità ai giovani medici, durante il loro periodo di specializzazione, di trascorrere sei mesi in uno dei progetti affiancando uno specialista che lavora sul campo. Questo approccio credo sia il migliore per poter capire se ci si sente adeguatamente preparati e motivati a svolgere il lavoro di medico in cooperazione poiché ci si confronta non solo con le proprie conoscenze e capacità di adattarle, ma anche con il proprio carattere e la predisposizione necessaria per lavorare in un contesto culturalmente diverso dal nostro.
- Ci può raccontare una sua giornata tipo come medico in Africa?
Sono un medico di salute pubblica per cui a differenza dei medici clinici che lavorano prevalentemente in ospedale, durante il mio lavoro sul campo avevo molte sedi e mi muovevo molto nel distretto. Avevo un ufficio, vicino alla casa dove abitavo, ma principalmente seguivo le attività di supervisione del personale distrettuale nelle unità periferiche. Il distretto di Pujehun (Sierra Leone), dove ho lavorato, è un’area rurale, la rete stradale è precaria e circa 25.000 persone abitano in piccoli villaggi raggiungibili solo tramite la barca. Capitava di impiegare anche 7-8 ore per un viaggio di andata per effettuare la supervisione di 2-3 centri di salute, per poi pernottare in un villaggio. Era un’attività molto dispendiosa in termini di risorse, ma fondamentale. La conoscenza della localizzazione, dei tempi di percorrenza e del personale che lavorava nei diversi centri di salute era indispensabile per poterle connettere all’ospedale e creare “un sistema” tale che ci fosse la possibilità di raggiungere il paziente in caso avesse bisogno di ulteriori cure. In quel momento potevano raccogliere quelli che erano i reali bisogni della popolazione e degli operatori: solo con queste informazioni si potevano poi elaborare le appropriate strategie di intervento.
- Ha avuto l’opportunità di lavorare in un contesto completamente differente da quello a cui noi siamo abituati: che cosa ha imparato dall’Africa? Che cosa le ha lasciato questa esperienza di cooperazione?
All’inizio sicuramente è sorto un sentimento di frustrazione e inadeguatezza di fronte alle varie “mancanze” del sistema sanitario locale. In questo senso mi è servito molto un insegnamento che mi era stato dato proprio al Cuamm prima di partire: per i primi mesi guarda e basta. Lavorare con pochi mezzi e risorse può essere molto difficile da accettare. Appena arrivati spesso si è tentati di dare consigli, denigrare quello che è stato fatto fino a quel momento, proporre soluzioni che, nell’immediato, sembrano le più logiche. Tuttavia se non si conosce il contesto, quelle stesse proposte possono rivelarsi inadeguate, inappropriate e non sostenibili. Credo che il cambiamento all’approccio nei confronti degli ostacoli che mi si pongono sia l’insegnamento più grande che mi ha lasciato questa esperienza. Lavorando in cooperazione si impara a vedere le cose in modo diverso, con un atteggiamento non critico, ma propositivo e ad accogliere con entusiasmo la sfida che ci si trova ad affrontare. Ci si rende conto che i buoni risultati possono arrivare nonostante le numerose difficoltà, si impara a conoscere un sistema diverso e una diversa cultura e ci si rende conto di quanto questo confronto possa farci crescere sia professionalmente sia umanamente.

