
Il pronto soccorso e gli altri ambiti della medicina d’urgenza come i servizi del 118 sono spesso luoghi a rischio per comportamenti aggressivi rivolti agli operatori sanitari. Evitare l’aggressione attraverso la propria capacità relazionale e comunicativa è la finalità del corso “Le competenze comunicative per la prevenzione e la gestione delle aggressioni nella medicina di emergenza”, che si è svolto nel mese di marzo al CEFPAS. Ne parliamo con una delle principali docenti Gioconda Pompei, psicologa, formatore per lo sviluppo delle Risorse Umane.
- Si è da poco celebrata la Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari (12 marzo), ma gli episodi di violenza contro i sanitari, negli ultimi tempi, sono in forte aumento. In che modo si può lavorare sul concetto di prevenzione?
La prevenzione è un’azione complessa che deve avvenire a più livelli: la formazione del personale, accompagnata a misure di sicurezza organizzative ed ambientali, contribuisce alla prevenzione e riduzione degli eventi aggressivi in maniera significativa. La corretta azione gestionale da parte delle direzioni sanitarie, lo studio del fenomeno e la modifica dell’ambiente sono gli elementi principali su cui intervenire per far sì che i comportamenti e gli ambienti dove vengono erogate le prestazioni di cura e di assistenza siano il più possibile idonei sia per gli utenti che per gli operatori a garanzia della loro sicurezza.
- Secondo un report Inail sugli infortuni sanitari, durante il quinquennio 2016-2020, sono oltre 12mila i casi di infortunio codificati come violenze, aggressioni e minacce nei confronti del personale sanitario, con una media di circa 2.500 l’anno. Si tratta di un dato preoccupante, qual è secondo Lei è il problema alla radice?
I medici, gli infermieri e gli operatori sociosanitari sono a rischio più alto poiché devono gestire, a contatto diretto, rapporti caratterizzati da una condizione di forte emotività sia da parte del paziente che dei familiari, che si trovano in uno stato di vulnerabilità, frustrazione o perdita di controllo. Concorrono all’incremento degli atti di violenza: l’aumento di pazienti con disturbi psichiatrici acuti e cronici, la diffusione dell’abuso di alcol e droga, il degrado culturale che porta in modo pregiudiziale alcune persone al non rispetto dei ruoli sanitari, le aspettative deluse dei pazienti e/o parenti nei confronti dell’organizzazione, le lunghe attese nelle zone di emergenza o nelle aree cliniche; l’affollamento del reparto e il ridotto numero di personale durante i momenti di maggiore attività; la difficoltà di comunicazione e/o collaborazione tra operatori e pazienti e la mancanza di formazione del personale nel riconoscimento e gestione dei comportamenti ostili e aggressivi. L’allargamento di gravi difficoltà economiche e sociali a fasce di popolazione sempre più ampie e la diffusione di vissuti di rabbia e frustrazione, hanno ulteriormente acuito questo fenomeno negli anni.
- Gli infermieri e gli Oss sono le categorie più colpite e tra gli infortunati per quasi tre quarti sono donne, come si può garantire un ambiente di lavoro più sicuro?
La prevenzione degli atti di violenza contro gli operatori sanitari richiede che l’organizzazione sanitaria identifichi i fattori di rischio per la sicurezza del personale e ponga in essere le strategie ritenute più opportune. Ad esempio, potrebbe assicurare, dove possibile, la presenza di due figure professionali all’atto dell’erogazione di una prestazione sanitaria (sia ospedaliera che territoriale); garantire la chiarezza della comunicazione con gli utenti e, nel caso di utenti stranieri, prevedere se necessaria la presenza di un mediatore culturale; fornire ai pazienti informazioni chiare sulle modalità e i tempi di erogazione delle prestazioni (es.: tempi di attesa); assicurare che i luoghi di attesa siano confortevoli e creare spazi adeguati per l’informazione che garantiscano l’accoglienza del paziente e la sua privacy. E ancora: gestire l’accesso ai locali di lavoro mediante regole e sistemi di protezione; poi nelle aree a rischio la presenza di arredi idonei a ridurre gli elementi potenzialmente pericolosi; assicurare l’installazione di sistemi di illuminazione idonei sia all’interno della struttura che all’aperto; predisporre la presenza di un team addestrato a gestire situazioni critiche e a controllare pazienti aggressivi. I momenti a rischio più elevato si realizzano durante il trasporto del paziente, nella risposta all’emergenza, nelle ore notturne, mentre le aree a più alto rischio includono l’accettazione, le unità di emergenza o di trattamento acuto, le strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali, i luoghi di attesa, i servizi di continuità assistenziale.
- Uno dei moduli del Corso che si svolgerà al Cemedis, di cui sarà docente, si focalizza sulle capacità comunicative per la prevenzione e la gestione delle aggressioni. Ci vuole spiegare meglio il ruolo della “Comunicazione” in questi tipi di scenari?
Evitare l’aggressione attraverso la capacità relazionale e comunicativa è “lo strumento” più efficace che l’operatore sanitario possiede nella sfera personale di controllo degli eventi. L’empatia, l’ascolto e la comunicazione assertiva sono fondamentali sia per istaurare sin dall’inizio una relazione costruttiva con il paziente e i familiari sia per la gestione del comportamento aggressivo mirando al recupero della relazione con l’interlocutore. L’obiettivo principale è la trasformazione dei contenuti di violenza e di minaccia in modalità comunicative ragionevoli e rispettose che possano favorire la negoziazione dei rispettivi bisogni. Il comportamento violento avviene spesso secondo una progressione che, partendo dall’uso di espressioni verbali aggressive, può arrivare a mettere in atto azioni distruttive. La conoscenza di tale progressione può consentire al personale di comprendere quanto accade e di interrompere quindi il corso degli eventi. Ovviamente la strategia di prevenzione e contenimento delle aggressioni deve include diverse misure, tra cui quelle strutturali ed organizzative, ma non può prescindere da una adeguata formazione degli operatori attraverso la predisposizione di corsi conoscitivi sul fenomeno e soprattutto sull’utilizzo delle tecniche di comunicazione efficaci.
- Che differenza c’è tra aggressività e aggressione?
L’aggressività è un fenomeno complesso che racchiude una molteplicità di significati. Spazia da una connotazione positiva di aggressività strumentale, intesa come mezzo per raggiungere obiettivi e superare ostacoli, ad una negativa ovvero di aggressività ostile, che deriva da sentimenti di rabbia con l’intenzione di infliggere dolore. L’aggressività intesa come stato di tensione emotiva che ha come obiettivo, perlopiù intenzionale, di nuocere all’altro provocando lesioni psicologiche o materiali, si manifesta con diversa intensità fino ad arrivare all’aggressione verbale e/o fisica. Il National Institute of Occupational Safety and Healt (NIOSH), definisce come violenza sul posto di lavoro “ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale che si verifica sul posto di lavoro”.
- Un altro tema caldo è il sovraffollamento al pronto soccorso. Il periodo di attesa di accesso alle cure è il punto cruciale. La figura dello psicologo, potrebbe diventare strumento di rassicurazione. Cosa ne pensa?
L’intervento clinico dello psicologo inserito nello staff del pronto soccorso ha una valenza più ampia e complessa di quella dell’essere uno strumento di rassicurazione. Il suo obiettivo è di rispondere alle richieste psicologiche di pazienti e familiari che vi si rivolgono e di facilitare la relazione tra operatori sanitari, paziente e familiari nonché di alleviare il carico di lavoro degli stessi nei casi di vissuti psicologici dell’utenza difficili da gestire. Può aiutare a fronteggiare le angosce e i sentimenti d’impotenza che si sviluppano nei pazienti e familiari in seguito alle comunicazioni più destabilizzanti che riguardano la loro salute. Il contributo dello psicologo è fondamentale anche nel dare supporto agli operatori sanitari vittime dell’aggressione aiutandoli a gestire le conseguenze emotive di questi episodi ed evitando che possano evolvere verso condizioni di sofferenza cronica, di disturbi post-traumatici da stress o di demotivazione lavorativa (burn out).
L’intervista è stata realizzata dal Servizio Comunicazione del CEFPAS.